Quando i dati dicono molto ma non tutto
Dati. Un tema complesso così come la loro analisi e interpretazione; di quelli che fanno sì che la lezione su analytics e reportistica che faccio in aula dal 2013, sia quella in cui ci sono più barriere da superare ma anche più soddisfazioni alla fine del modulo, perché i ragazzi comprendono il valore dell’analisi, della possibilità di misurare, comparare e progettare, che solo i dati mettono a disposizione.
Un po’ come nella medicina, una buona macchina per fare un esame è un ottimo inizio, ma senza un ottimo medico in grado di leggerne i risultati e dedurne una diagnosi, e di conseguenza una cura, abbiamo solo una parte di quello che è fondamentale per poter argomentare i nostri risultati.
Sì perché in questa era 4.0 il marketing operativo la fa da padrone, quello strategico finalmente sta tornando in auge perché si è compreso che l’operatività senza una direzione – ovvero un piano editoriale senza una content strategy – non porterà da nessuna parte. Per semplificare e dirlo con un pay off di una campagna anni ‘90 che i Millennials ricorderanno – la potenza è nulla senza controllo.
Il marketing analitico, invece, sta ancora timidamente recuperando terreno e mostra come l’analisi dei dati e la misurazione siano fondamentali nella produzione di strategie efficaci, di campagne di marketing – paid o organiche che siano – di successo, di piani di sviluppo per il business, per gli e-commerce e molto altro.
Non a caso, la materia richiede professionalità specifiche, come nel caso di Julia, data analyst di 26 anni, che racconta il suo lavoro in relazione al fatto che analyst e data scientist sono tra le professioni più richieste, in un’era in cui si prospetta che “dal 2019 al 2023 le imprese ricercheranno tra 210 mila e 267 mila lavoratori con specifiche competenze matematiche e informatiche, digitali e 4.0. Esperti di analisi di dati, di sicurezza informatica, di intelligenza artificiale e di analisi di mercato saranno sempre più una risorsa preziosa per le aziende.”*
Si parla quotidianamente di dati, anche grazie al fatto che sempre più strumenti di misurazione sono alla portata di tutti, sia nella loro versione free, sia nella versione premium, con fee mensili accessibili al 90% delle aziende, dei professionisti, e degli stessi social influencer e blogger.
Peraltro questi ultimi sono spesso oggetto di analisi guidate da questi dati.
Se da un lato però l’accessibilità a questi strumenti ha fatto emergere un sano interesse per la misurazione a tutti i livelli – analisi e benchmark, performance di campagne, progettazione – dall’altro ha aperto la consultazione e download di questi dati anche a chi di dati non ha mai capito molto, o peggio a chi ha pensato bene di farne l’uso peggiore, cioè alimentare polemiche sterili e notizie al limite del fake se non argomentate o chiarite.
In particolare, in questi mesi, l’attenzione è sullo strumento Instagram, che vanta una crescita del 4,4% nell’ultimo quarter del 2018 con +38 Milioni di utenti attivi**, e che dopo le dichiarazioni dello scorso novembre, in relazione a un impegno e lotta quotidiana ai fake follower e alla vendita di like ecc, ha accentuato e inasprito il confronto tra brand e marketers, che di questi strumenti e risorse si avvalgono per le campagne di Influencer marketing, riportando a galla la domanda “siamo sicuri che sto pagando questa collaborazione per comunicare davvero a un pubblico interessante e interessato?”, e tra i protagonisti delle campagne – quindi social/Instagram influencer e Blogger. Succede in particolare in alcuni settori, quali Travel, Fashion, Food e Automotive, tra cui si è avviata una sorta di corsa a chi fosse in grado di dimostrare non tanto la qualità della propria follower base ed engagement rate, quanto piuttosto l’utilizzo di pratiche discutibili (quali la ormai tristemente famosa tecnica del “like-unlike”) o i fake dei colleghi o passatemi il termine, competitor.
Premesso che come ho già scritto anche qualche giorno fa in un post su Facebook non condivido il modello della macchina del fango, né tanto meno quello della gogna social, a prescindere dalle motivazioni o argomenti trattati, il peggio emerge quando per una manciata di like, o per seguire un trending topic (in questo caso in relazione a un tool rilasciato che sta spopolando online perché permette a chiunque di analizzare grafici di crescita di un profilo IG, follower, interazioni, engagement rate, ecc) si fanno congetture, deduzioni e accuse anche gravi, senza aver prima acquisito la competenza per fare data analysis, verificato che quei dati siano sufficienti a portare a determinate conclusioni e, dulcis in fundo, diffondendo tali dati con abbastanza elementi perché sia facilmente deducibile a chi fanno riferimento, ma senza citarlo apertamente, dando quindi la possibilità, quantomeno, di una eventuale replica.
Ecco da cosa nasce lo spunto per questo post, e i miei 2 cent su cosa si dovrebbe fare prima di cimentarsi nella scrittura di contenuti che interpretano dati e risultati:
- Studiare il settore della analisi che si sta per intraprendere
Ovvero creare uno storico per poter creare delle comparazioni o degli elementi di confronto. Questo perché il contributo di altri, soprattutto se esperti, è non solo prezioso ma imprescindibile. - Scegliere i tool che supporteranno la raccolta dei dati e un tempo di analisi cui fare riferimento per estrapolare e confrontare i dati. Sapere su che arco temporale e in base a quali KPI o elementi si vuole fare l’analisi.
- Raccogliere i dati, elaborarli e sintetizzarli perché siano comprensibili anche alla nonna
Se siamo in grado di spiegare a nostra nonna i dati e i report che abbiamo redatto, ci sono buon probabilità che abbiamo davvero compreso quei dati e siamo stati in grado di renderli comprensibili e con un senso compiuto anche per gli altri. - Sviluppare l’analisi quantitativa e qualitativa. La prima è fatta di competenza nella elaborazione dei dati, degli algoritmi e degli elementi più tecnici che avremo grazie ai tool utilizzati e alla competenza tecnica; la seconda invece richiede un confronto su tutti quegli aspetti che “la macchina” non è in grado di valutare e di elaborare con la mera estrapolazione di numeri quali follower, like, unlike, commenti, share, reach, impression e tutto l’elenco che potrebbe continuare ancora a lungo. Aspetti quali lo scambio di link tra blogger, i giveaway, le operazioni di diffusione condivisa di hashtag o le collaborazioni tra influencer orientate alla rapida diffusione di un argomento con la semplice pratica del fare “rete”. Tutti temi che non è possibile evincere estrapolando “solo” i dati relativi ad account e pagine.
Ne è un esempio la campagna seguita da Happy Minds a Novembre per il progetto di charity #PastaPestoDay (Qui puoi scoprire di più sulla campagna) dove più di 500 influencer nel mondo hanno fatto rete per diffondere il progetto e, con ottime probabilità, avendo collaborato tra loro scambiandosi menzioni e rilanci tra post, stories, dirette, video ecc, avranno avuto riscontri sulla diffusione del loro profilo, nuovi follower, like ai contenuti, ecc ecc, aspetti questi che dalla analisi della campagna tout court non sono visibili, né tantomeno tracciabili da uno o più sistemi o tool di misurazione. - Un percorso circolare che si apre studiando e si chiude studiando. Quindi studiare, aggiornarsi, studiare. Se tutto ciò non fosse ancora sufficiente per fare una buona analisi e un buon report, contattare un buon data analyst che supervisioni il nostro lavoro, o a cui affidare l’analisi ☺
A questo punto la domanda è d’obbligo: Voi vi fareste curare da un medico, o da una analisi diagnostica? 😉
…E infine, per tornare sul tema digital, come misurate i risultati delle vostre strategie, progetti e campagne di marketing digitale?
Cecilia Pedroni
*Fonte – articolo “Tra analisi e codici, vi racconto il mio lavoro”
** Fonte Data Report Global Digital Overview 2019 – We Are Social & Hootsuite